Oggi è stata pubblicata la seconda enciclica del nostro papa Benedetto XVI. Il titolo è Spe salvi, cioè Siamo salvati nella speranza. Nell'attesa di leggerla, riportiamo la presentazione della stessa fatta dal card. Albert Vanhoye (dal sito della Sala stampa vaticana)
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All’inizio del tempo liturgico dell'Avvento, il Santo Padre Benedetto XVI ci offre una Enciclica il cui tema è egregiamente confacente a questo tempo, un’Enciclica, cioè, sulla Speranza, illuminante, incoraggiante e stimolante.
In questa nuova enciclica ritroviamo il Papa profondo teologo e nel contempo pastore attento alle necessità del suo gregge. Accanto a riflessioni molto approfondite sui rapporti tra la speranza cristiana e la fede cristiana, nonché sull’evoluzione della mentalità moderna nei confronti della speranza cristiana, troviamo pagine commoventi su grandi testimoni della speranza, a cominciare da sant’Agostino (nn. 11-12, 15), che viveva in un’epoca drammatica, e fino ai tempi più recenti, quelli di santa Giuseppina Bakhita, (n. 3) un’africana del 1800, fatta schiava all’età di 9 anni, martoriata da crudeli padroni, ma finalmente liberata e nata alla speranza grazie all’incontro con il Dio dei cristiani, salvatore pieno di amore. Il Santo Padre cita anche lungamente una straordinaria lettera di un martire vietnamita dell'800, Paolo Le-Bao-Thin (n. 37), che subì "crudeli supplizi di ogni genere", ma rimaneva "pieno di gioia", perché non era solo, Cristo era con lui; egli scriveva: "Mentre infuria la tempesta, getto l’ancora fino al trono di Dio: speranza viva che è nel mio cuore…". Dei nostri tempi, l’Enciclica riferisce il caso dell’ "indimenticabile Cardinale Nguyen Van Thuan" il quale "da 13 anni di prigionia, di cui nove in isolamento … ci ha lasciato un prezioso libretto: Preghiere di speranza. Durante 13 anni di carcere, in una situazione di disperazione apparentemente totale, l’ascolto di Dio, il potergli parlare, divenne per lui una crescente forza di speranza" (nn. 31 e 34). Questi casi eccezionali manifestano bene il dinamismo intenso dell'esperienza cristiana.
La breve Introduzione dell'Enciclica (n. 1) dimostra subito l’importanza decisiva della speranza, che sarà poi ribadita più volte. Per poter affrontare il presente con tutti i suoi problemi e le sue difficoltà, abbiamo assolutamente bisogno di una speranza e di una speranza veramente valida e ferma.
Viene poi considerata "attentamente la testimonianza della Bibbia sulla speranza" (n. 2). "Speranza… è una parola centrale della fede biblica – al punto che in diversi passi le parole fede e speranza sembrano interscambiabili". Effettivamente, la fede cristiana non consiste anzitutto nell’accettare un certo numero di verità astratte, ma consiste nel dare la propria adesione personale alla persona di Cristo, per essere da lui salvati e introdotti nella comunione divina. La vera speranza ci viene data nell’incontro personale con il Dio vivo e vero per mezzo di Cristo (n. 3). Agli inizi del cristianesimo, la speranza cristiana veniva espressa e testimoniata perfino sui sarcofaghi cristiani nel modo di rappresentarvi Cristo come il vero filosofo che guida alla vita eterna e come il buon pastore (n. 6).
Nel n. 7, il Santo Padre osserva che il rapporto tra fede e speranza viene espresso nella Lettera agli Ebrei (11,1) in "una sorta di definizione della fede che intreccia strettamente questa virtù con la speranza". Il Papa riferisce in proposito di una disputa tra esegeti "sull’interpretazione di una parola greca, hypostasis, tradotta in latino con "substantia". L’interpretazione antica era oggettiva: "la fede è sostanza delle cose che si sperano, prova di cose che non si vedono." Così la relazione tra fede e speranza appare forte. Lutero, invece, al quale, scrive il Santo Padre, "il concetto di sostanza, nel contesto della sua visione della fede, non diceva niente", si decise per una interpretazione soggettiva: la fede come una disposizione soggettiva in rapporto a ciò che si spera, e una convinzione in rapporto a ciò che non si vede.
Il Papa osserva che questa interpretazione si è affermata anche nell’esegesi cattolica ed è stata adottata dalla traduzione ecumenica in lingua tedesca, approvata dai vescovi. Il Papa però prosegue, dicendo a ragione, che non è il senso del testo, perché il termine greco tradotto "convinzione" non ha mai questo senso, ma significa prova, mezzo per conoscere, e quindi il termine parallelo hypostasis deve anche avere il suo senso oggettivo, che è il suo senso normale. A conferma di questa posizione, il Papa cita una dichiarazione di un noto esegeta protestante, il quale nel Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, il Grande Lessico Teologico del Nuovo Testamento, dopo una seria indagine, conclude che l’interpretazione soggettiva è "insostenibile". "la fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire […]; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa". Ne risulta che la speranza cristiana è sostanziosa.
Adoperando un altro passo della Lettera agli Ebrei (10,34), l’Enciclica esprime un contrasto tra due basi per la vita umana, una base materiale, che assicura il sostentamento dell’esistenza, e la base fornita dalla fede, in rapporto con la speranza.
Queste spiegazioni mostrano un’attenzione estremamente accurata a tutti gli aspetti del tema della speranza.
Nelle pagine successive, dal titolo: "La vita eterna – che cos’è?" (nn. 10-12), il Santo Padre esprime con vivo realismo la mentalità attuale di molte persone. La vita eterna è l’oggetto della speranza. Ma a molte persone, oggi, "la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente. […] La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine — questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine, insopportabile". Partendo allora da una lettera di S. Agostino "indirizzata a Proba, una vedova romana benestante", il Santo Padre precisa che cosa si deve intendere con "vita eterna", cioè non una successione interminabile di momenti, ma una pienezza alla quale aspiriamo. "Possiamo soltanto", scrive il Papa, "presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell'infinito amore, nel quale il tempo — il prima e il dopo — non esiste più. […] Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo" (n. 12). Queste sono parole illuminanti e che colmano il cuore di gioia.
Dopo di che, l’Enciclica pone un’altra domanda, sulla quale tornerà più volte. Essa domanda, cioè, se "la speranza cristiana è individualistica" (n. 13). Una risposta positiva viene data da più parti e accompagnata "nel tempo moderno" da "una critica sempre più dura: si tratterebbe di puro individualismo, che avrebbe abbandonato il mondo alla sua miseria e si sarebbe rifugiato in una salvezza eterna soltanto privata." Vengono citati in proposito i rimproveri rivolti ai cristiani dallo scrittore francese Jean Giono e respinti dal Cardinale de Lubac "sulla base della teologia dei Padri in tutta la sua vastità" (n. 14). Lungi dall’essere individualistica, l’autentica speranza cristiana aspira a "una salvezza comunitaria"; essa "presuppone l’esodo dalla prigionia del proprio ‘io’" per accogliere l’amore in tutte le sue dimensioni; ha quindi "a che fare anche con la edificazione del mondo". La dottrina e l’esempio di S. Bernardo di Chiaravalle vengono citati in proposito.
A questo punto, l’Enciclica osserva che il concetto di speranza cristiana ha subito negli ultimi secoli una evoluzione negativa, che ha le sue antiche radici nell’opera di Francesco Bacon alla fine del 500, dal titolo Novum Organum, la quale promosse la scienza sperimentale e ne fece sperare la restaurazione del paradiso perduto. Ormai per l’edificazione del mondo, ciò che doveva contare era "la fede nel progresso", assicurato "dal collegamento tra scienza e prassi". Ne risultò che la fede cristiana diventò "in qualche modo irrilevante per il mondo" e che la speranza cristiana venne ridotta a una prospettiva individualistica.
"Al contempo, dice l’Enciclica, due categorie entrano sempre più al centro dell'idea di progresso: ragione e libertà" (n. 18). Qui l’Enciclica presenta aspetti importanti della storia del pensiero moderno e delle "tappe essenziali della concretizzazione politica" della speranza che vi corrisponde. Non spetta a me riferirne. L’Enciclica mette a confronto "la vera fisionomia della speranza cristiana" (nn. 24-29), la quale ha una relazione stretta, non solo con la fede, ma anche con l’amore che viene da Dio e unisce a Dio e ai fratelli.
La conclusione di questa parte è chiara (m. 31): "Noi abbiamo bisogno delle speranze — più piccole o più grandi — che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio […]. Dio è il fondamento della speranza, — non un qualsiasi dio, ma quel Dio che ha un volto umano e che ci ha amati sino alla fine […]. Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare […] giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto."
La seconda grande parte dell'Enciclica descrive i "Luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza" (non. 32-48) e riguarda quindi, in modo più concreto, la vita cristiana. Vengono distinti tre luoghi: I. La preghiera come scuola della speranza; II. Agire e soffrire come luoghi di apprendimento della speranza; III. Il Giudizio [con una g maiuscola] come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza. Le analisi offerte sono di una ricchezza e di una profondità stupende.
Sulla preghiera, l’Enciclica sfrutta una omelia di S. Agostino sulla Prima Lettera di Giovanni omelia quanto mai suggestiva, che illustra "l’intima relazione tra preghiera e speranza", definendo "la preghiera come esercizio del desiderio", esercizio necessario perché il nostro cuore "è troppo stretto per la grande realtà che gli è assegnata. Deve essere allargato" (n. 33). "Pregare non significa uscire dalla storia e ritirarsi nell’angolo privato della propria felicità. Il giusto modo di pregare è un processo di purificazione interiore che ci fa capaci per Dio e, proprio così, anche capaci per gli uomini." Per raggiungere questo scopo, la preghiera "deve essere sempre di nuovo guidata dalle grandi preghiere della Chiesa e dei santi, dalla preghiera liturgica, nella quale il Signore ci insegna a pregare nel modo giusto" (n. 34). "Così diventiamo capaci della grande speranza" e anche "ministri della speranza per gli altri: la speranza in senso cristiano è sempre anche speranza per gli altri".
Un altro luogo dove si esercita la speranza è l’azione, perché la speranza cristiana non è oziosa, ma spinge ad agire. "Ogni agire serio e retto dell'uomo è speranza in atto" (n. 35). La speranza cristiana sostiene l’impegno quotidiano e mi dà il coraggio di agire perfino quando, umanamente parlando, "non ho più niente da sperare", perché "è la grande speranza poggiante sulle promesse di Dio".
Anche la sofferenza è un luogo dove si esercita la speranza cristiana, anzi un luogo privilegiato, perché "non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore" (n. 37) e le cui sofferenze sono diventate, per questo motivo, sorgente inesauribile di grazie. Qui l’Enciclica cita la splendida testimonianza di un martire vietnamita, di cui ho parlato all’inizio, poi parla del condividere la sofferenza altrui e dell’"offrire" le proprie pene.
In terzo luogo, l’Enciclica presenta il Giudizio finale di Dio "come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza" in un senso evidentemente diverso dai luoghi precedenti, perché il Giudizio finale non è una realtà presente come sono le preghiere e le sofferenze. Il Giudizio finale suscita, però, la speranza, perché eliminerà il male. Qui l’Enciclica offre riflessioni profonde sul terribile problema del male e della giustizia.
Poi aggiunge spiegazioni preziose sull’inferno, sul purgatorio e sulla preghiera per i defunti.
L’Enciclica si conclude con una contemplazione di "Maria, stella della speranza", un bellissimo dialogo con Lei e una intensa preghiera.
Termino così questa mia presentazione, consapevole delle sue insufficienze, sperando solo di aver suscitato in voi il vivo desiderio di una conoscenza diretta del testo dell'Enciclica.
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